Giorno 1: Partenza e primi intoppi

Il viaggio inizia con un dettaglio fondamentale: i miei due amici, Marco e Giulia, vedono. Io no. Questo potrebbe sembrare un problema, ma in realtà significa solo che le loro descrizioni saranno la mia finestra sul mondo. O almeno dovrebbero esserlo, se non passassero più tempo a litigare sul navigatore che a raccontarmi il paesaggio.

L’aeroporto è il solito concentrato di caos e odori strani: profumo di duty free mescolato con il panico della gente che corre per non perdere il volo. Il check-in si trasforma in una gara a chi trova prima i documenti, con Marco che li ha persi almeno due volte e Giulia che, nel panico, cerca di convincere l’addetto che il mio bastone bianco dovrebbe essere considerato un bagaglio speciale. Alla sicurezza mi toccano dappertutto, come se stessi trasportando segreti nucleari nel taschino della camicia. La cosa ironica? Non posso nemmeno vedere chi mi sta perquisendo con tanto entusiasmo.

L’aereo ha un odore metallico, con un sottofondo di plastica e di cibo riscaldato. L’aria condizionata mi soffia addosso un’aria gelida e il sedile ha quella consistenza a metà tra il troppo rigido e il troppo morbido, che mi fa venire il dubbio che abbia visto tempi migliori. Durante il volo, Marco e Giulia mi descrivono il panorama: “Blu, con nuvole bianche”. Utilissimo.

Quando atterriamo in Marocco, l’aria è diversa: calda, con un pizzico di spezie e benzina. Siamo arrivati. Già all’uscita dall’aeroporto, il cambio di atmosfera è netto. L’aria è più densa, carica di umidità e di profumi intensi, di quelli che ti si appiccicano addosso e ti entrano nei polmoni. Tra i taxi che suonano senza un apparente motivo e i venditori che cercano di offrirci ogni tipo di mercanzia, capisco subito che sarà un viaggio pieno di sorprese.

Giorno 2: Marrakech e i primi sapori

Marrakech mi investe con un mix esplosivo di odori: cumino, cannella, carne grigliata e qualcosa che potrebbe essere cuoio… o forse un cammello? Le strade sono piene di suoni, il vociare dei venditori, il suono delle motociclette che sfrecciano senza regole apparenti, e il tintinnio del metallo che batte sulle pentole nelle cucine a cielo aperto. Marco mi guida tra le bancarelle mentre Giulia tenta di spiegarmi il colore dei tessuti. Dice che sono “vibranti”. Io annuso un tappeto e decido che il suo profumo è molto più interessante.

Giorno 3: Il deserto e il dromedario ubriaco

Assaggio il mio primo tajine: lo stufato è speziato, con una nota dolce data dai datteri, e la carne si scioglie in bocca. Il pane è croccante fuori e soffice dentro, perfetto per raccogliere il sugo. Bevo il tè alla menta, che è così dolce da farmi sentire il bisogno immediato di lavarmi i denti. La sensazione di calore che lascia in bocca è piacevole, quasi rilassante, come se il viaggio fosse iniziato davvero solo in quel momento.

Ci spingiamo nel deserto: l’aria secca mi secca la pelle, la sabbia entra ovunque e il dromedario su cui sono seduto si muove come una barca ubriaca. “Stai attento a non cadere!” dice Marco ridendo, mentre io cerco disperatamente di mantenere l’equilibrio. Ogni passo dell’animale è una sfida per il mio senso dell’orientamento, e ogni tanto ho l’impressione di stare per rotolare giù.

Giorno 4: Notte stellata nel deserto

La notte, il freddo mi sorprende e il cielo è incredibilmente silenzioso. Lo sento sulla pelle, come un vuoto enorme sopra di me, un’assenza totale di rumore che rende tutto più intenso. Mi avvolgo nella coperta spessa che odora di lana e polvere e mi addormento sotto il cielo stellato.

Giorno 5: La frontiera e il caos burocratico

La frontiera è un delirio burocratico. Ci fermano, ci controllano, ci scrutano. Io sorrido e aspetto che Marco e Giulia risolvano tutto. L’aria qui è più secca, con un vago sentore di metallo e polvere. Le strade sono un susseguirsi di buche che il nostro fuoristrada sembra amare. Ogni scossone è un massaggio involontario alla spina dorsale. Sembra quasi che l’auto si diverta a sfidare la mia resistenza fisica.

Giorno 6: Il villaggio e il pane affumicato

Un giorno ci fermiamo in un piccolo villaggio. Il pane che mi danno ha un sapore di legna bruciata e di terra. Le persone parlano una lingua musicale e le loro mani sulle mie sono ruvide, ma calde. Un bambino mi tocca il viso, curioso. Lo sento ridere mentre cerco di capire cosa stia facendo. La notte dormiamo in una capanna, tra coperte spesse che odorano di sole e di tempo. Il pavimento è duro, ma c’è qualcosa di rassicurante nel sentirsi avvolti dal silenzio del villaggio.

Giorno 7: Dakar e l’imprevisto

Dakar è un’esplosione di vita. L’odore di pesce essiccato si mescola al suono incessante del traffico. Qui assaggio il Thieboudienne, riso e pesce in un mix di spezie che mi fa scendere una lacrima di gioia (o forse è il peperoncino?). Il sapore è intenso, con un retrogusto leggermente affumicato che persiste in bocca.

Imprevisto del viaggio: la nostra macchina decide di scioperare nel mezzo del nulla. Giulia cerca di spiegarmi il problema usando termini tecnici che per me suonano come “il motore ha deciso che non vuole più esistere”. Passiamo ore sotto il sole cocente finché un meccanico locale ci aiuta. Il suo olio di motore profuma di metallo e fatica. L’attesa è lunga, ma alla fine ripartiamo con un motore che borbotta come un vecchio signore irritato.

Giorno 8: Il cuore della savana

Ci avventuriamo nella savana, dove l’aria ha un profumo di erba secca e terra calda. Ogni tanto sento il ruggito lontano di un leone e Giulia mi rassicura che è “molto lontano”, anche se il suo tono di voce non aiuta a convincermi.

Giorno 9: Il fiume e l’inaspettato bagno

Ci fermiamo lungo un fiume, l’acqua è fresca e invitante. Decido di immergere i piedi, ma uno scivolone mi fa finire direttamente in acqua. Marco ride così forte che credo abbia scattato almeno dieci foto.

Giorno 10-16: Ultimi giorni di viaggio

Ogni giorno è un’esperienza nuova: il sapore delle spezie cambia, l’aria si fa più umida e la natura diventa più fitta. I miei sensi si affinano ancora di più e capisco che questo viaggio resterà per sempre dentro di me.

Il viaggio di ritorno è un turbinio di emozioni e di stanchezza. L’aeroporto sembra ancora più caotico all’andata, o forse siamo semplicemente noi a essere più provati. L’odore familiare del duty free ci accoglie con la sua combinazione di profumi dolciastri e deodoranti troppo intensi. Marco e Giulia sono più silenziosi del solito, quasi come se nessuno di noi volesse davvero tornare alla routine.

Quando finalmente atterriamo, l’aria è più fredda, più sottile, meno intensa. La mia pelle sente la differenza: meno umidità, meno odori forti, meno vita che mi investe. Eppure, ogni particella di sabbia ancora intrappolata nei miei vestiti mi ricorda l’Africa, ogni spezia che assaggerò d’ora in poi avrà un significato nuovo. Ho imparato che vedere non è tutto: ho vissuto questo viaggio attraverso il tatto, il gusto, l’olfatto e soprattutto attraverso le risate e le voci dei miei amici.

E forse, in un certo senso, ho visto più di loro.


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