Non so esattamente cosa mi spinse a scegliere Marrakech. Forse il suono del nome — Marrakech — come un tamburo che vibra nel petto, o forse la voglia di sentire qualcosa che non fosse solo la mia solita città, i miei spazi conosciuti, i miei percorsi sicuri. Io sono cieca dalla nascita, ma non ho mai pensato che questo mi rendesse meno capace di viaggiare, meno degna di avventura. Anzi, ho sempre sentito che i miei sensi, quelli che tutti danno per scontati, sono amplificati. Vedo con le dita, con il naso, con le orecchie, con la pelle.

E Anna, la mia amica di una vita, è l’altra metà dei miei viaggi. È lei che mi descrive il mondo, ma non come una guida turistica: mi descrive le cose come se me le stesse leggendo dentro.

“Clara, andiamo,” mi disse, quando le proposi il Marocco. “Tu ascolterai Marrakech, io te la farò vedere.” E così partimmo.


Atterraggio e prime impressioni

Appena uscimmo dall’aeroporto di Marrakech, fui investita da un’onda calda e profumata. Un’aria densa, quasi materica. Sapeva di spezie, di polvere rossa, di agrumi e qualcosa di affumicato. Era come entrare in un mercato già prima di vederlo. Sentivo la pelle delle mani appiccicarsi, il sudore che si mischiava alla sabbia finissima portata dal vento.

I clacson, il vociare continuo, il rumore delle suole che sfioravano la pietra calda delle strade… Era un concerto caotico ma affascinante. Anna mi prese per un braccio, stretta, come sempre quando sa che sto cercando di “sentire” qualcosa.

“C’è una luce dorata ovunque,” mi disse. “Il cielo è chiarissimo, ma la terra è rossa, viva. Anche le case sono color ocra, sembrano fatte della stessa sabbia su cui camminiamo.”

Io annuii in silenzio. Non avevo bisogno di vedere: Marrakech già mi parlava.


La medina: un cuore pulsante

Entrare nella medina fu come entrare dentro un cuore. Palpitava. La gente si muoveva come sangue tra arterie strette. I vicoli erano pieni di vita. Sentivo ogni passo come una vibrazione, ogni voce come una goccia di colore. I venditori gridavano parole in arabo, alcune le riconoscevo, altre erano solo suoni affascinanti.

Anna mi fece fermare davanti a una bottega di spezie. “Davanti a te hai piramidi di polveri colorate. Alcune rosse come paprica, altre giallo brillante, verdi di menta, ocra come la terra.” Mi chinai a odorare. Il cumino era intenso, il coriandolo pungente, il cardamomo quasi dolce. Toccai con un dito e portai alla lingua un pizzico di harissa: fu come un’esplosione. Pungente, quasi dolorosa, e poi una dolcezza lenta, come miele piccante.

Più avanti un uomo suonava il guembri, e mi fermai immobile. Quel suono basso, profondo, sembrava venire dal ventre della terra. Era una musica ipnotica, che mi entrava nelle ossa. Anna stette zitta, come sapeva fare quando capiva che stavo ascoltando davvero.


La piazza Jemaa el-Fna: teatro dell’umanità

Jemaa el-Fna non è una piazza: è un teatro a cielo aperto. Lì, ogni persona è personaggio. Il profumo del fumo della carne arrostita si mescolava a quello degli aranci spremuti. I tamburi, i flauti dei suonatori di serpenti, le voci dei cantastorie: tutto era spettacolo.

Mi sedetti su uno sgabello di legno. Un uomo ci offrì datteri e mandorle. Ne assaggiai uno: il dattero era morbido, carnoso, dolcissimo. Le mandorle, tostate, croccanti, con un retrogusto di miele e sale. Anna mi raccontava cosa vedeva: “Un incantatore danza con un serpente davanti a un gruppo di bambini. Un vecchio legge la mano a una donna con abiti coloratissimi. Un venditore offre denti di cammello…”. Risi. Tutto sembrava possibile, lì.


L’hammam: il ventre del mondo

Entrare nell’hammam fu come rinascere. Una donna mi prese per mano e mi guidò nel vapore. Era caldissimo, quasi insopportabile all’inizio. Poi il corpo si arrese. Le mani della donna mi lavavano con forza, quasi a volermi scorticare via la vita passata. Il sapone nero odorava di eucalipto e limone. Il ghassoul, l’argilla minerale, era fredda, viscida. Ma dopo, la pelle sembrava velluto.

Lì, tra donne che parlavano in arabo e ridevano forte, mi sentii parte di qualcosa di antico. Un rituale. Un’umanità condivisa che non aveva bisogno di sguardi.


Una notte nel deserto

Partimmo verso il sud, verso il deserto. Il viaggio in auto fu lungo, ma la strada era piena di odori e suoni. I motori, i mercati, i silenzi delle palme.

Quando arrivammo, tutto era cambiato. Il silenzio era quasi sacro. Nessun clacson, nessuna voce. Solo vento.

Camminammo nella sabbia, con un uomo berbero che guidava i cammelli. Le loro zampe affondavano nel suolo con un suono ovattato. Mi accarezzai il volto e mi accorsi che avevo sabbia sulle ciglia, sui capelli. Era ovunque.

Quella notte, dormimmo in una tenda. Anna mi raccontava del cielo: “Clara, non hai mai visto nulla di così bello. Le stelle sono così tante che sembrano cadere.”

Chiusi gli occhi, come sempre, e dissi: “Io le sento. Ogni stella è un suono, un respiro, un battito lontano.”

Il fuoco crepitava e un vecchio suonava uno strumento che non conoscevo. Sembrava piangere. Ma era una tristezza dolce, come la nostalgia di qualcosa che non hai mai avuto, ma che riconosci.


Il ritorno

Quando tornammo, Marrakech era dentro di me. Non l’avevo vista, ma l’avevo vissuta. Avevo camminato tra le sue vene, avevo respirato la sua anima. Ogni odore, ogni suono, ogni sapore era inciso in me come un tatuaggio invisibile.

Anna, seduta accanto a me in aereo, mi disse: “Non riesco a credere a quanto sei riuscita a sentire.”

Io sorrisi. “Perché Marrakech parla. E io, semplicemente, ho ascoltato.”

E forse, alla fine, è proprio questo che cerco nei viaggi: non vedere il mondo, ma sentirlo. Dentro. Con ogni parte di me. Anche — e soprattutto — quella che non ha mai avuto bisogno della luce.


Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *